Ogni volta che diamo all’altro la colpa della nostra infelicità, del nostro dolore, così come il merito della nostra felicità, stiamo togliendo a noi stessi la sovranità del nostro regno. Le persone litigano, le coppie litigano, i genitori discutono con i figli e spesso, alla fine, si perde di vista il motivo del contendere. Ci ostiniamo a dire così tante volte “perché tu perché tu perché tu” che noi, l’io parlante e senziente, svanisce dietro la nebbia che ci appanna la visuale. Eppure siamo noi a sentire quella sofferenza, a provare quella gioia. E allora dov’è che stiamo quando lasciamo il nostro sentire in mani estranee? Di certo non stiamo in ascolto di noi stessi. Non sto parlando di dire le cose in maniera educata, sto parlando del fatto che se non parlo di ciò che Io sento parlerò inevitabilmente di ciò che Tu hai fatto, e perderò l’occasione per farti capire ciò che provo. E tutto continuerà a ripetersi all’infinito.

Se lascio che sia qualcosa al di fuori di me a decidere come mi sentirò oggi, allora non mi sentirò mai al sicuro.

La tentazione c’è, perché cercare fuori è più facile e veloce che guardare dentro, eppure la potenza che si percepisce quando siamo consapevoli di noi stessi, quando ci accorgiamo che nessuno, al di fuori di noi, può regolare le nostre vite, vale davvero lo sforzo iniziale.
Rompere questo meccanismo richiede un gran lavoro di pazienza e auto-osservazione; se ci rendiamo conto di non riuscire a dire ciò che sentiamo senza infilarci in mezzo rabbia, risentimento e parole di cui un secondo dopo ci pentiremo, allora è meglio tacere. Per il momento. Perché il detto “conta fino a 10” a questo si riferisce, ci dice di aspettare a parlare per dare il tempo a ciò che non serve di svanire. Che poi capita anche che invece che fino a 10 ci rivediamo settimana prossima che è meglio, ma va bene lo stesso.
Noi abbiamo lo scettro del nostro potere, e dovremmo volercelo tenere stretto e custodirlo, anche perché qui non si tratta di colpe, ma di responsabilità. Sono io il responsabile della mia vita, e mi piace pensare che lo sono per tutto, perché se non posso decidere cosa accade, posso sicuramente decidere come reagire a ciò che accade.
Stesso discorso per i meriti; se la nostra felicità si basa sulla presenza dell’altro, non appena questi si allontana o se ne va’, ecco che ripiombiamo nello stato della vittima. Già, ho detto vittima. Fino a quando dipenderemo da ciò che accade fuori saremo lontani dalla nostra libertà. E per quanto a volte sia comodo, sempre vittime saremo.
Allora comincio a parlare in prima persona, Io ho sentito – Io ho detto – Io ho capito, così da ricordarmi che nel mio centro ci sono io, che da qui è possibile osservare cosa è importante e cosa non lo è, per me, cosa davvero voglio dirti, e forse l’altro non si sentirà attaccato e giudicato, forse farà altrettanto e magari la discussione si trasformerà in un momento di reciproca autenticità.
Non esiste giusto o sbagliato se parliamo del nostro sentire e lo comunichiamo con il cuore.

Fermarsi a guardare dov’è il gancio che ci tiene impigliati alla situazione può diventare un buon esercizio di autoconoscenza; vedere quali emozioni sono affiorate, dargli un nome, chiedersi se è davvero qualcosa che riguarda questo momento, questa relazione, oppure se è qualcosa che ci riporta indietro nel passato, in qualche luogo dove ci siamo sentiti feriti. Attribuendo colpe e meriti agli altri ci rendiamo incapaci. Incapaci di riconoscerci forti, di vedere le nostre potenzialità, di attribuirci il valore che sappiamo di meritare.

Tutte le volte che scegliamo di essere noi i protagonisti, tutte le volte che ci prendiamo cura del nostro sentire, senza ricorrere all’altro come scusa, come diversivo, le nostre radici si rafforzano, il nostro potere aumenta e il nostro cuore diventa più forte, perché abbiamo nutrito la parte di noi che si ama. E più saremo consapevoli di questo e più la nostra luce aumenterà.

Perché siamo qui per imparare a lucidare la nostra anima e farla splendere nel mondo.

Federica Di Filippo

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